A volte, capita di vivere episodi della propria vita, ritrovandosi in alcune frasi o parole che li rappresentano alla perfezione. Ti rendi conto come quelle frasi siano vita incarnata.
Senza dilungarmi nel raccontare la mia situazione sentimentale, basti sapere che in seguito ad una relazione finita dopo dieci anni, sto avendo l’occasione di frequentare un’altra persona, un ragazzo di qualche anno più giovane di me.
La relazione con il mio ex è finita da pochi mesi, ma siamo riusciti a mantenere un rapporto più che buono; ci sentiamo quotidianamente, viviamo in case differenti, ma nella stessa città, entrambi frequentiamo altre persone. Per il mio trentanovesimo compleanno, avendo festeggiato i precedenti nove insieme, mi faceva piacere pranzare con lui. In tempo di pandemia, giusto un pranzo possiamo permetterci.
Prima ancora del pranzo, era accaduto questo episodio. Per massima trasparenza, ho sempre raccontato alla persona che ora frequento la mia vita passata e presente, e il rapporto con il mio ex.
«Non preoccuparti, ho capito, è una cosa che non mi dà più fastidio». Questa è la frase che mi va ripetendo da mesi.
Sempre con la massima trasparenza, dopo aver festeggiato il mio compleanno solo con lui, gli dico che avrei pranzato con il mio ex per festeggiare anche con lui il mio compleanno.
Mutismo o, al massimo, qualche parola del tipo «Uhm ..ah, … , ok». Il mutismo si trasforma in un pozzo di vuoto. Avete presente come il buco nero risucchia tutto, anche il più piccolo fotone di luce? Ecco, così!
A disagio per quel buco nero, gli domando: «Te la sei presa perché festeggio anche con lui?»
«Beh che ne pensi? Certo! Proprio con lui!», esplode.
«Te l’ho detto che qui conosco solo te e lui, per me è un’altra città, ho amici e famiglia lontani. Dopo aver festeggiato con te è l’unica persona con cui potrei festeggiare». Gli domando: «Ti ho mancato di attenzioni?»
«Beh…no, ma cavolo, si vede che faccia fai quando vi sentite!» controbatte. «E che faccia faccio scusa?»
«Sei felice! Neanche quando ti chiama tua madre o tua sorella hai quella faccia!»
Il viso era risentito, aveva tirato fuori con rabbia un disaggio latente. Pochi secondi che sembrano un’eternità e rispondo: «Io non ti ho mancato di attenzioni tesoro mio, abbiamo festeggiato insieme, passato tutto il giorno del mio compleanno a cucinare. Non ti manco di rispetto e non ti faccio torto. Sei forse geloso o invidioso della mia felicità?» Gli manca il terreno sotto i piedi. Non gli avevo detto che era geloso del mio ex. Era chiaro, lo era, ma era lampante che quello non era l’unico motivo.
La mia felicità dipendeva solo da lui? Era lui l’unico che poteva darmi felicità?
Oppure io potevo avere la mia di felicità, con le persone che ho amato e a cui voglio bene?
La sera mi ha chiesto scusa per quella frase. Riflettendoci non le pensava veramente, mi disse, ma gli era uscita così, di getto.
Lo rassicurai, le parole gli erano uscite perché era quello che provava in quel momento. Parlammo di come io mi stavo costruendo una mia autonoma felicità. Con gli altri, e anche con lui. Ma è la mia felicità.
Questo episodio, non l’ultimo del genere sia chiaro, mi ha riportato alla mente una frase che avevo letto e ruminato.
La prima è la parabola del Vangelo dei lavoratori della vigna (Matteo 20, 1-16). Sinteticamente parla di come il padrone di una vigna, chiamando più operai a lavorare la sua vigna a diverse ore, renda a tutti la stessa paga, un denaro. Infatti, nel passo è scritto: «…Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? …»
L’ho letta tante volte questa parabola, solo ora la comprendo fino in fondo. Anzi, l’ho vissuta.
Forse tutti noi abbiamo una visione un po’ distorta dell’amore e delle relazioni con gli altri. L’unicità di una relazione amorosa non racchiude in sé tutta la vita o la felicità di una persona, e non può racchiudere neanche tutto l’amore che una persona può esprimere.
Si amore. Non l’etichetta “amore” che tutti noi pensiamo; quella che nasce, cresce, vive e muore all’interno di una coppia. Ma l’amore inteso in senso ampio, cioè l’amore per l’altro.
Mi ricordo infine questa frase dal diario di Etty Hillesum, ebrea olandese morta nel campo di concentramento di Auschwitz a 29 anni:
«Sono presuntuosa nel dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile. Può impoverire e inaridire parecchio» (1941).
In questi lunghi mesi di riflessione personale, mi rendo conto che l’amore non è una bilancia, un gioco di equilibri di dare e avere, ma è forza vitale verso l’altro, che sgorga da sé senza chiedere nulla in cambio.
L’amore è come l’acqua che prende la forma del vaso che si riempie, per questo può avere diverse forme, ma è sempre amore.

Sono un uomo con una storia ordinaria, una famiglia simile a tante altre e tanta voglia di serenità. Sto scoprendo giorno per giorno, che sono Io l’artefice del mio benessere e che, chi non mi vuole, non mi merita. Mi voglio, mi merito, mi amo.