Circa 2500 anni fa il principe indiano Siddharta Gautama, conosciuto come il Buddha, cioè come colui che si è «risvegliato» e ha raggiunto la piena liberazione, indicò una “Via” che molti hanno interpretato come un obiettivo e non come uno strumento. Riporto un passo di un interessante libro a questo riguardo. (Franco Fabbro, 2018)
La tradizione sostiene che il Buddha, dopo aver dedicato numerosi anni e sforzi inumani alla ricerca della liberazione, dopo aver rinunciato alla via ascetica, al termine di una notte di meditazione fosse riuscito a raggiungere il nibbāna, ovvero la completa «estinzione» di ogni sofferenza. Raggiunto l’obiettivo, si propose di aiutare anche gli altri esseri umani a conseguire la liberazione. Per questa ragione elaborò un percorso pedagogico, chiamato la «Via», basato su una limitata serie d’insegnamenti con caratteristiche peculiari.
L’insegnamento del Buddha può essere paragonato a un granello di senape che viene seminato nella mente, e che opportunamente accudito può generare un albero rigoglioso. Il sistema sviluppato dal Buddha è apparentemente semplice. Egli ritiene che la mente sia caratterizzata da un’intrinseca «insoddisfazione» (dukkha) e da un continuo «mutamento» (anicca), e per questo poggi su concetti illusori, come quello dell’esistenza indipendente di oggetti o del «Sé» (anattā). La «buona novella» è che la liberazione degli esseri umani è possibile. La «Via» (dharma) proposta dal Buddha consiste in un cammino che si pone tra due estremi: da una parte la vita dissoluta, dall’altra il rigido ascetismo. Il sistema di liberazione è noto come «ottuplice sentiero». Si tratta di mantenere un comportamento appropriato a livello sociale, individuale e mentale (comprensione, pensiero, linguaggio, azione, mezzi di sostentamento), unitamente alla pratica della meditazione (sforzo, consapevolezza e concentrazione unitiva).
L’aspetto dell’insegnamento del Buddha che ha più colpito l’immaginario occidentale è stato la meditazione. La parola «meditazione» deriva dal latino mederi, che significa «risanare, curare, guarire, aiutare»; si tratta di un termine collegato direttamente alla parola «medicina». In sanscrito, una delle lingue utilizzate dal Buddha, la meditazione è bhāvanā, traducibile come «crescita spirituale», oppure come «coltivare il ricordo di sé».
Nel Grande discorso sui fondamenti della presenza mentale il Buddha insegna la pratica della meditazione di consapevolezza (samma sati) attraverso la contemplazione del corpo (consapevolezza del respiro e delle parti del corpo) e l’osservazione della natura della mente. È importante sottolineare che la meditazione costituisce soltanto una parte, anche se essenziale, della Via; quest’ultima non è praticabile se l’intero «ottuplice sentiero» non viene ottemperato (Fabbro e Crescentini 2016).
Il Buddha sosteneva che i suoi insegnamenti rappresentano soltanto la via per raggiungere il risveglio; il metodo non deve essere confuso con l’obiettivo.
Non volle dogmatizzare norme e precetti, ricordando che la Via è come una zattera che aiuta le persone ad attraversare il fiume, e che una volta raggiunta la terraferma non è di alcuna utilità. Scoraggiò anche la nascita di atteggiamenti gerarchici nei suoi allievi. Nella Via non esistono maestri, ma soltanto amici che possono avere una maggiore esperienza. Ci sono infatti molti modi di concepire la Via, ma non c’è un modo migliore dell’altro. Nei praticanti è la Via stessa che insegna a ognuno la strada migliore. A questo riguardo, la tradizione insegna che il Buddha, prima di morire, disse ai suoi discepoli: «siate una lampada per voi stessi» (Panikkar 1996). Gli insegnamenti del Buddha non si rivolsero solo all’élite religiosa del tempo (bramini, nobili e guerrieri), ma a tutti gli esseri umani. Per questa ragione il Buddha si oppose al sistema delle caste: a suo parere non esistono differenze negli esseri umani che lavorano per la propria liberazione. Inoltre, nella Via tracciata dal Buddha non sono contemplate differenze tra uomini e donne, tra persone che vivono in campagna o in città, tra conoscenti o forestieri (Fabbro, 2018).
Cercare un maestro, un aiuto per raggiungere la liberazione, equivale a non volerla raggiungere. La meditazione, come i più recenti strumenti di matrice occidentale, ad esempio la psicoterapia nelle sue varie forme e la mindfulness, sono strumenti ai quali si può chiedere solo di illuminare il percorso, il sentiero. È però l’individuo in piena solitudine che dovrà percorrerlo e accettare la presenza delle paure che inevitabilmente lo assaliranno.
Soli, lungo un buio sentiero che sappiamo affollato di mostri creati dalla nostra mente.
La domanda più frequente sull’autostima che sento porre è “come si fa”?
Conosco una sola risposta sensata.
Accetta la paura dei tuoi mostri e intraprendi il sentiero, ma non chiedere a nessuno quale sia quello giusto perché solo tu puoi scoprirlo, e per far si che questo accada, devi percorrere territori sconosciuti che ti permetteranno di conoscere te stesso, accettarti, farti carico della tua vita e comportati in modo coerente con ciò in cui credi.

Milano, Italy – Ho 59 anni, mi sono laureato in psicologia clinica all’Università degli Studi di Parma e specializzato in psicoterapia a indirizzo comportamentale e cognitivo. Mi sono specializzato in psicoterapia cognitiva e comportamentale, sessuologia clinica, terapia della coppia e consulenza familiare. Ho conseguito un master in ipnoterapia e seguito il percorso di specializzazione in EMDR per il trattamento dei traumi.