La morte è pornografica, titolo di questo post che rispecchia l’atteggiamento della nostra società nei confronti di questo aspetto dell’esistenza. La morte che va nascosta, negata, rifuggita. La pandemia, purtroppo, ha reso la morte, un momento ancora più doloroso e angosciante, in quanto ha impedito ogni presenza al fianco di chi stava abbandonando la vita. Quelle presenze che rappresentano la fonte di conforto per il solo fatto di esserci, di testimoniare i sentimenti condivisi e lenire la paura dell’ignoto.
Della morte non si deve parlare, quasi come se fosse sporca e quindi da evitarne ogni prossimità e negarne la presenza. Eppure si tratta della nostra unica certezza e siccome ci è ignoto cosa troveremo, se troveremo, aldilà, ci fa paura e dalla paura scappiamo; non dalla morte, ma dalla paura della morte.
Parlare della morte vuol dire parlare della vita e rispettare la vita.
La morte ci appartiene, non ci possiamo preparare a essa poiché non la conosciamo, ma possiamo stemperarne la paura riconoscendole il valore generativo. È un momento di svolta per chi muore, ma anche per chi rimane. La morte solitaria nei reparti Covid mostra l’aspetto più importante nei momenti finali della vita, ovvero l’empatia di chi rimane verso chi lascia l0 esperienza terrena.
Per approfondire questo tema, vi segnalo questo intervento del Dott. Stefano Manero, anestesista che ha lavorato ai tempi bui del primo lock down, all’ospedale di Bergamo.

Milano, Italy – Ho 59 anni, mi sono laureato in psicologia clinica all’Università degli Studi di Parma e specializzato in psicoterapia a indirizzo comportamentale e cognitivo. Mi sono specializzato in psicoterapia cognitiva e comportamentale, sessuologia clinica, terapia della coppia e consulenza familiare. Ho conseguito un master in ipnoterapia e seguito il percorso di specializzazione in EMDR per il trattamento dei traumi.