Solo quando entrerà amore nei cuori delle persone, solo in quel momento avremo la pace nel mondo.
Ricordo ancora quel giorno. Ero in ginocchio, davanti a quell’uomo che sbraitava: Alzati! I latrati del cane che teneva al guinzaglio mi penetravano l’anima. La donna distesa al mio fianco mi ripeteva che era stremata. Allungai una mano per sorreggerla, ma il soldato mi sferrò un calcio.
Deve farcela da sola! mi ammonì. Io alzai il corpo a fatica, ma lei rimase accasciata. Così lui le scagliò il pastore tedesco. L’animale, labbra increspate, naso arricciato e denti digrignanti, le azzannò il collo e scosse la testa lacerandogli la carne tenera e smilza che iniziò a imbrattare il terreno di sangue. Porco Nazista! avrei voluto gridargli, ma non ebbi il coraggio. Ritornai in fila col patema di saperla lì, a morire dissanguata e non poter fare niente. La bestia le aveva reciso l’aorta. Feci un respiro profondo che si arrestò nella parte alta dei polmoni. L’aria fredda mi schiaffeggiava il pigiama a strisce bianche e azzurre, dove una stella giallo ocra aveva smesso di brillare. Era intrisa del tanfo dei cadaveri bruciati che aleggiava da giorni, e mi penetrava fino alle ossa. Ripensai a quando ero bambina, a quanti sogni avevo, a quanti ne volevo realizzare. Di colpo, arrivarono gli schiamazzi dall’altra parte della recinzione. Due soldati inseguivano un uomo. Era Giovanni, mio marito! Il cuore mi scoppiò nel petto. Non ci vedevamo da quando eravamo in quell’inferno. Incrociai quegli occhi scavati, spenti, ingialliti. Lui mi guardò intensamente, ma un milite gli sferrò un ceffone. Cammina!, gli intimò con voce rauca, e per non farsi mancare nulla, gli sputò in faccia. Volevo abbracciarlo. Ci fissammo e gli lanciai un bacio con la mano. Lui se lo portò sulle labbra, dopodiché mi sorrise e con gli occhi lucidi di lacrime mi salutò. Ma il soldato gli strillò di riaccodarsi alla fila altrimenti l’avrebbe ammazzato. Giovanni aveva capito che tanto sarebbe morto comunque, così continuò a guardarmi, anche quando il milite gli puntò la pistola sulla nuca. Ti prego non farlo!, esclamai scuotendo la testa. Giovanni rimase serio, le sue labbra si aprirono e mi sussurrarono Ti amo, e fu il più bello della mia vita. Un altro Tedesco si accorse che guardavo la scena, allora mi girò il volto con mano fredda. Dopodiché un boato violento riecheggiò secco nel cielo, spazzando via ogni speranza nel mio cuore. Chinai il capo e spalancai la bocca. Credetti di avere dei conati di vomito, ma non era vomito, era pianto, senza lacrime, il più brutto della mia vita.
Mi incamminai con l’ultima espressione del suo volto impressa nell’anima. E intanto ci trascinammo in un casolare di mattoni rossi. Poco prima di entrare, rivolsi lo sguardo in lontananza. C’erano delle persone che portavano delle carrette colme di corpi. La mia compagna mi disse che erano i cadaveri dei bambini che venivano portati nei forni crematori. Io mi rifiutai di credere a quell’orrore, mi uccideva dentro. Entrammo in fila indiana. All’interno c’erano delle soldatesse che ci intimavano di spogliarci. Ci stringemmo, tremolanti mentre ci frustavano, manco fossimo bestiame da macello. Di colpo arrivò il buio, il silenzio, il terrore scavato nei visi scarni. Ci abbracciammo tutte. Erano le camere a gas, ecco cos’erano. L’avevo sentito dire nei dormitori, ma non volevo crederlo. Chiusero le porte, le finestre e ci lasciarono sole. Capimmo tutto. Dicono che poco prima di morire la vita ti scorra davanti. Possono dire quel che gli pare, ma in quel momento a me non passò niente. Ci spargemmo per la stanza, come mosche impazzite in un’ampolla di vetro. Io sbattei i pugni su una porta, mentre i bambini si aggrappavano alle gambe smilze delle madri. L’anca sporgente di una donna mi puntò sul fianco, e quando mi girai cadde a terra. Forse era svenuta, forse morta o forse stavo facendo un brutto sogno. Invece no, non era un incubo, era tutto vero. Passarono gli attimi, i minuti, le ore, ma non accadde nulla, quando un uomo spalancò la porta. Siamo liberi!, urlò sbracciando. Uscimmo a passi concitati e una donna scivolò davanti i miei piedi. Io le passai sopra. Ci spargemmo come uccelli che prendono il volo da un albero dopo uno sparo violento. Un ufficiale tedesco veniva correndo, ma arrivò fulmineo un proiettile che lo colpì sulla nuca. Il sangue del suo cervello schizzò a fiotti. Dopo un boato enorme un casolare si coprì di fiamme che illuminarono l’oscurità appena calata. Era la guerra, la morte, la fine. Forse erano venuti a salvarci, o forse a finirci d’ammazzare. Tremavo come un uccellino al freddo, così mi accasciai dietro un camion dei Nazisti quando vicino al mio piede vidi una pistola. Al mio fianco c’era un soldato sdraiato, aveva la gamba insanguinata. Lo fissai con occhi sbarrati. Era quel mostro che aveva ucciso mio marito, lo riconobbi. Una vampata d’odio mi salì nelle viscere. Strinsi i denti e gli puntai la pistola contro. In quel momento potevo sparargli, ma non era giustizia, era vendetta. Così gettai l’arma e con occhi gonfi di lacrime mi dissi che avevo fatto la scelta giusta. Dall’edificio degli ufficiali uscì un bambino che gli andò incontro. Era suo figlio. Si inginocchiò, lo prese per la giaccia e lo chiamò, ma arrivavano spari da tutte le direzioni, così senza pensarci un attimo, lo presi in braccio. Lui piangeva mentre lo tenevo, non capiva perché stavano sparando da tutte le parti, non sapeva quanto fosse crudele suo padre. Non comprendeva quanto poteva essere malvagio un cuore senza amore. Ma non doveva pagare per lui. Per questo lo strinsi a me. Scappammo in direzione di un altro casolare che sembrava più riparato dalla vista dei soldati, ma all’istante arrivò una bomba nel punto esatto in cui eravamo. Il corpo del tedesco si lacerò in mille brandelli. E in quei frammenti di membra c’era tutta la sconfitta dell’umanità. Il figlio si accucciò al mio petto. Se lo avessi lasciato lì, sarebbe morto con lui.
Gli coprii il viso impedendogli di guardare ancora, perché per quanto malvagio fosse, quel mostro era sempre suo padre. Davanti a noi si fermò un camion. Fece salire alcuni sopravvissuti. Ci stanno salvando!, gridò un uomo. Iniziai a correre e una volta arrivata all’autocarro mi feci aiutare ad arrampicarmi insieme al bambino, dopodiché l’automezzo ripartì. Eravamo in silenzio, senza forze, dignità e nemmeno il coraggio di guardarci in faccia. Forse, ci avevano tolto anche quello. Poco dopo, percorrendo le strade vicine al campo, sentimmo il boato delle bombe attenuarsi, e con esso anche la visione dei casolari in fiamme. Chissà, saremo salvi? Mi ripetei. Poi guardai la creatura, la accarezzai in fronte, i suoi occhi avevano l’espressione di quelli di un agnellino. Appena ci fummo allontanati mi avvicinai al suo viso e sussurrando gli dissi Non è in mano agli altri il nostro futuro, ma in noi stessi, solo in noi stessi. Forse un giorno diventerai un uomo, forse un giorno sarai ciò che non è stato tuo padre, forse, un giorno, capirai cosa vuol dire amare. Il bambino socchiuse le palpebre e senza dire una parola, si addormentò sul mio seno.
